mercoledì 12 ottobre 2016

Saluti in Corsa


Fabio Cugi cammina lesto mantenendo il vantaggio costante di una decina di metri da me e Ribaud. Otto minuti disponibili per percorrere cinquecento metri e salire sul treno che lo porterà a casa. Ultimo treno della notte. E’ un po’ in ansia, fà freddo e continua a ripeterlo.
Arriviamo in stazione, il treno è fermo al binario uno. Il Cugi snobba il primo vagone perchè c’è un viaggiatore stravaccato a terra nel corridoio. Non importa se il malcapitato si sente male o è solo ubriaco, è stravaccato. Scivola via fino alla seconda carrozza, è pulita. Bel treno, nuovo, interni bianchi, la porta si apre col pigio di un pulsante centrale a led verdi sbuffando aria in pressione.
Fabio sale con solennità e con una lieve goffa indecisione come capitano brillo che sale a bordo di un’astronave interstellare, si gira elargendoci frasi e saluti di circostanza.
Di fronte alla porta aperta frego le mani e allargo le braccia rivolgendo i palmi verso il tepore in fuga che ci investe. I saluti si protraggono, Fabio accenna licenza a prendere posto ma i nostri saluti sono trappola collosa elastica, immobilizzante.
Infine la porta si chiude, un ultimo saluto e spalla a spalla con Ribaud ci portiamo verso l’uscita. Camminando senza foga immagino la scena del saluto dal treno in corsa. Classica scena da film di separazione di un forte legame. I due si continuano a salutare fino a quando chi non è sul treno non riesce a correre più forte e il treno lo supera. A quel punto chi è a bordo abbassa il finestrino, si sporge (vietatissimo) e continua a salutare l’amato fino a che non scompare dissolvendosi nello sfondo nebbioso o notturno o notturno nebbioso.
Lo facciamo? Lo salutiamo in corsa? Ribaud ride e siamo già di ritorno sulle tracce del Sankio.
Il treno è sempre fermo, nel primo vagone completamente vuoto non c’è, è nel successivo, seduto sulla poltroncina vicino al finestrino, vòlto in direzione casa, lato binario non pensilina dove siamo noi. Sta maneggiando al fine di inserire l’auricolare nell’orecchio destro e lo spinge e lo avvita come come una lampadina che non si aggancia al portalampada. Insiste, Non guarda dal finestrino, siamo passato senza malinconia. Ci rivedrà forse tra un mese, quindici giorni, una settimana, non se lo domanda.
Ci sbracciamo per un po’ come due cretini prima di battere due dita sul vetro. La musica non l’ha ancora accesa, è metodico, non va accesa prima che il treno inizi la sua corsa. Ci sente quasi subito e  mascherando un machèdubalotefruste in un piacevolmente sorpreso ci sorride, ci saluta e riprende a rigirarsi l’auricolare guardando in basso come uno che sta accertando non gli stiano andando a fuoco le palle. Continuiamo a salutarlo ma non ci guarda più. Il treno si muove e noi ci muoviamo con lui salutando. Il treno avvia la spunta e noi incollati a salutare Fabio che non ci pensa. Poi si corre fino a che le braccia non salutano più trasformandosi in strumenti d’equilibrio. Fabio a testa bassa smanettando l’auricolare in moplen tagliato con la bakelite, sicuramente comperato dai cinesi, non ha ricambiato i nostri saluti.
Scena più comica che poetica, divertente, il giusto finale di una bella serata anche per Fabio se ci avesse guardato.

sabato 1 ottobre 2016

Santa Sana Gelosia



A men’ché non si parli di gelosia le brutte sorprese mi scivolano via.
Se altrimenti mi bagno, mi inzuppo e mi annego riemergo cavallo che salta dal treno.
Tamburo da galea in petto, elettroni tutt’intorno, impronte in fiamme, orecchie a vapore, ruggine di fili intrecciata la coda infilzata.
Non spacco tutto, respiro.
Imbriglio l’energia per convogliarla nel metodo, raccolta di dati, formulazione di ipotesi, conferma della tesi conseguenza delle ipotesi.
Mai giunto ad una tesi, ho sempre esaurito prima l’energia, della sana gelosia.

giovedì 29 settembre 2016

Il ponte di Trezzo sull'Adda






Al passare dei camion il ponte balla, facendoti provare l’ebbrezza dell’adesso crollo ma non mollo.
Il ponte di Trezzo sull’Adda è elastico. Sembra costruito bene.
Negli anni settanta, alle ore diciotto, il traffico d’auto sul ponte raggiungeva il tutto esaurito. Un serpente col singhiozzo fatto d’auto e camion.
Fermi in coda e senza smartphone, che avrebbero inventato solo quarantanni dopo, ci si concentrava tutti sul “vediamo se qualcosa si muove” con movimenti del collo simili a quello dei polli da batteria pochi secondi prima della consegna del pasto. Quando le auto davanti guadagnavano terreno ci si tirava su con la schiena, si davano due sgasate per disingolfare il motore imballato e in attesa, come di quella parola che non viene, quella sulla punta della lingua, si era tutti pronti a mollare la frizione accompagnandola con una parolaccia, che in spiccioli  significava “era ora”.
Dall’auto davanti sarebbe potuto pervenire un “Maporcaputt…” da quella dietro un “Ostia”. 
Così era il tran tran dalle diciotto alla venti dei giorni feriali, comprendente il “falso allarme incidente” che veniva dato tutte le sere.
Avveniva che la quinta auto davanti alla tua si allontanava, il serpente perdeva la coda e diventava due serpenti. Davanti vanno, perchè qui siamo fermi?
Con una carrellata veloce di tutti coloro che erano al volante si sarebbero potuti distinguere gli autoctoni dai foresti. 
L’autoctono allargava le braccia e sorrideva perchè sapeva, il foresto cercava il morto e i feriti.
La risposta era Rosario Fontanazza.
Palermitano. Capelli bianchi, camicia rossa scozzese e gilet dal quale sbucavano due braccia tese nello sforzo di muovere avanti un carretto stracarico di carta da macero.
Rosario abitava e lavorava di qua dal ponte, la cartiera di là.
Era un brav’uomo, beveva solo un po’, picchiava moglie e figli, ogni tanto accoltellava qualcuno ma tutti gli volevano bene.*
l clacson degli Homer che una volta giunti a casa si sarebbero tuffati sul divano, suonavano fissi, quelli di chi doveva recuperare i figli in palestra sparavano intermittenti come assoli di tromba, chi non teneva alla Ternana suonava,  quello di chi gli stava andando a fuoco la casa no, era rotto. Suonavano tutti, come se le onde sonore assommatesi potessero creare una forza d’urto come quella generata dalla pistola di Lucio in Overwatch, che venisse in aiuto alla spinta del trabiccolo.
Rosario Fontanazza spronato a dare di più, spingeva il suo carretto alla stessa velocità, al massimo. Non poteva fare di più, non era necessario suonare, quindi mollava il carretto si girava verso le auto e lanciava antiche maledizioni trinacriesi con le braccia al cielo. Menagramate, parolacce, uno sputo, una mezza bestemmia. Con il tempo necessario giungeva alla fine del ponte, svoltava a destra veloce, giù in discesa e l’allarme cessava. Ciao Rosario, a domani.

*In realtà non faceva niente di tutto questo, l’ho scritto solo per far contrasto, beveva solo un pochino.